Patto quota lite: che cos’è? Quando si richiede? A quanto può ammontare?

L’espressone “patto quota lite” deriva dal latino medievale “quota litis” e consiste in un particolare accordo stipulato tra un avvocato e il suo cliente. Oggi questo tipo di accordo trova resistenza ed è vietato dal codice deontologico e la giurisprudenza resta controversa questo argomento. Vediamo in ogni caso di cosa si tratta e come si calcola.

Patto quota lite: che cosa è?

Quando si parla di patto quota lite si fa riferimento a un accordo che viene stipulato tra un avvocato e il suo cliente. Secondo il patto di quota lite l’avvocato può richiedere al suo cliente una parte (o quota) dei diritti o dei beni in lite, quale compenso per la sua attività professionale. Di conseguenza, il compenso non è esclusivamente e strettamente legato alla sua opera intellettuale e professionale, ma viene proporzionato in base al risultato ottenuto.

Generalmente il compenso sotto forma di patto quota lite è calcolato sotto forma di percentuale che, di conseguenza, fa riferimento a quanto ottenuto, per esempio, a titolo di risarcimento dei danni dovuto al cliente.

Divieto del patto quota lite

Il patto quota lite, per un periodo, è stato vietato. Nello specifico, la Legge n. 248 del 2011 aveva vietato quanto era originariamente  previsto dall’art. 2233 del Codice Civile. Successivamente, l’art. 9 del D.L. 1/2012 ha abrogato le tariffe professionali e ha stabilito che, in relazione alla liquidazione giudiziale dei compensi, il giudice è tenuto a fare riferimento a parametri ministeriali fissati con decreto per le diverse categorie professionali. Infine, l’articolo 2233 del Codice Civile è stato ripristinato dall’art. 13, comma 4 della l. n. 247 del 2012.

L’art. 2233 del Codice Civile, così come aggiornato, prevede testualmente:

Il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, [sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene] [1657, 1709, 1755, 2225].

In ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione.

Sono nulli [1418], se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati ed i praticanti abilitati con i loro clienti che stabiliscono i compensi professionali“.

La giurisprudenza è ancora piuttosto controversa su questo argomento, ma è chiaro che è possibile optare, in alternativa, per il palmario. Il palmario consiste nel compenso corrisposto dal cliente al suo difensore che può sostituire o integrare l’onorario di quest’ultimo. Ciò, ovviamente, in particolare nel caso in cui la questione si risolva in favore del cliente. In altre parole, consiste nella corresponsione di un importo aggiuntivo all’onorario rapporto al risultato ottenuto o a causa della complessità dell’attività svolta. Anche questo tipo di compenso, però, deve essere pattuito in forma scritta.

Consiglio Nazionale Forense e Codice Deontologico Forense: cosa stabiliscono?

Come già accennato, secondo il codice deontologico forense ha trattato il tema del patto quota lite. Nello specifico, l’art. 45 del codice deontologico forense, a seguito della sentenza n. 25012, depositata il 25 novembre 2014, delle Sezioni Unite Civili hanno stabilito che l’avvocato può pattuire con il cliente un compenso che sia parametrato in base al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, a diverse condizioni. Innanzitutto il patto quota lite deve essere redatto in forma scritta o in ogni caso in una forma attraverso la quale l’avvocato ne possa provare l’autenticità e la validità. In secondo luogo, i compensi ricevuti dall’avvocato devono essere proporzionati all’attività svolta.

La sentenza di cui sopra aveva infatti portato alla decisione da parte del Consiglio Nazionale Forense di modificare l’art. 45 del codice deontologico forense, permettendo all’avvocato di pattuire «con il cliente compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti», a condizione che  «i compensi siano proporzionati all’attività svolta.»

Secondo quanto espresso dal Consiglio Nazionale Forense, il rispetto della proporzionalità della pretesa costituisce infatti il canone deontologico che deve improntare la condotta dell’avvocato.